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Una quarantena di compiti

di Alice Trastulli

Febbraio 2019, prima della reclusione da coronavirus: la normalità è ancora tra noi, sui nostri banchi di scuola e tra le pagine dei libri sottolineati. Daniel arriva sempre in ritardo a lezione, ha nove anni, due sorelle gemelle e un fratello maggiore. La loro auto è una specie di pulmino, la madre, sempre di corsa, porta un figlio qua e gli altri là, senza fermarsi mai. Gabriel prende lezioni di batteria elettrica, disegno, fa scout e piscina; poi viene alla Scuola Popolare perché ha bisogno di un supporto nello studio; è dislessico ed estremamente intelligente, brillante e svogliato allo stesso tempo. Si porta le mani nei capelli e mi dice: “sono stressato”. Io lo guardo: si stropiccia gli occhi, è vero, mi rendo conto, va in terza elementare ed è stressato.

Marzo. Il coronavirus è un’emergenza e per tutta Italia il mondo reale della scuola è un ricordo di almeno tre settimane fa. Penso ai miei studenti, ora finalmente anche loro avranno rallentato. Mi illudo: dalle famiglie che conosco mi arrivano notizie diametralmente opposte.  Poco dopo la chiusura delle scuole, una mattina in cui mi stavo occupando del giardino, è passata una famiglia di Scuola Pop in bicicletta. Ci siamo salutati e la madre non ha potuto trattenersi dal manifestare il loro disagio: “Anche il piccolo ha i compiti! Va alla materna ma ha i compiti, le videostorie che dobbiamo ascoltare ogni giorno! Poi il grande, sta in prima elementare e sta ancora imparando a leggere e scrivere e io che lavoro da casa, con un computer solo in casa, non ce la faccio più”.

Siamo ad Ardea, in provincia di Roma, e la mia esperienza di educatrice popolare è radicata in questo territorio, dove la Scuola Popolare Tor San Lorenzo nasceva anni fa con lo scopo di ridare valore, nello stress quotidiano che conoscevo bene, all’educazione allo studio, creando ambienti in cui fare i compiti in modo sano e collaborativo, perché il diritto allo studio fosse un esercizio quotidiano aperto a tutti.
Mentre alcuni mi scrivono di stare bene e di resistere con i compiti, che non sono poi così tanti e che sono facili, molti altri studenti raggiungono la chat di whatsapp per scrivere che non sanno come fare, che non hanno capito la lezione e che nessuno gliela può rispiegare.

Insomma, i compiti.
Ancora loro. Mi trovo immersa nei feedback di questa nuova epoca scolastica e mi rendo conto che oggi, in molti casi, lo stress scolastico è ancora più forte. Non ci sono mille attività, c’è tantissimo tempo, ma ci sono i compiti e manca l’educazione allo studio.
“È un incubo”, è, senza parafrasare, il commento di una madre dopo aver descritto alla perfezione questo affanno, che ho immediatamente sentito sulla pelle, e non ho potuto fare a meno di farmi alcune domande.

Come educatrice, impegnata nella promozione di una didattica inclusiva e sperimentale, ho sempre avuto un rapporto ambivalente con i compiti: sostengo il loro valore per trasmettere ai bambini il senso del dovere, la responsabilità personale, la crescita individuale. Li difendo a spada tratta anche quando sono qualitativamente impegnativi.
Quando invece sono solo tanti, vedo emergere gli aspetti critici. Uno degli scopi del compito è sicuramente il consolidamento di ciò che si è appreso, ma quando tale scopo è perseguito attraverso un carico di lavoro eccessivo e ripetitivo lo studente arriva ad odiare ciò che sta facendo. L’annullamento della motivazione, elemento fondamentale in ogni fase dell’apprendimento, vanifica il compito stesso e i suoi aspetti positivi. Resta il negativo: il bambino si rifiuta, o nella migliore delle ipotesi esegue come una macchina, senza imparare nulla in più.

I compiti sono sempre la pietra della discordia tra studenti, insegnanti e famiglie. L’emergenza sanitaria ha posto delle sfide inedite al mondo della scuola, aprendo il fronte della didattica a distanza e del digitale, ma al centro del problema sono rimasti ancora loro. Ogni studente riceve i compiti in maniera diversa, non solo in base agli strumenti che ha in casa ma anche in base al tipo di docente che ha: la scuola non era preparata a diventare scuola online, molte classi non fanno ancora lezione a distanza: ogni docente, secondo le proprie possibilità, le proprie competenze, e i propri valori educativi, fa scuola al proprio modo. Per alcuni ci sono lezioni in videoconferenza efficienti e ben strutturate, per altri videoregistrazioni, per altri ancora lezioni inviate via vocale di whatsapp a bambini di seconda o terza elementare, che nella migliore delle ipotesi durano diciotto-venti minuti.

La scuola non è più la stessa per tutti: ora è uno scenario di differenze e di servizi ineguali, e la cultura per i nostri studenti è servita su piatti nettamente diversi tra loro. La formazione è oggi più che mai differenziata, non vi è uniformità nella modalità di didattica, e questo crea confusione e senso di inadeguatezza. In questo scenario tutto il peso ricade sulla dimensione familiare, che inevitabilmente presenta situazioni più o meno critiche: e questo peso accentua e aggrava proprio quelle criticità che normalmente una scuola sana dovrebbe cancellare.
Ci sono casi in cui la didattica a distanza consiste nell’aggiungere altri compiti a quelli a cui gli studenti erano abituati, e non tutte le famiglie sanno come essere d’aiuto. Spazi, strumenti, tempo e competenze non sono gli stessi in tutte le case. Non tutti sanno come imporsi per far svolgere ai ragazzi quintali di compiti, non hanno una stampante dove stampare le decine di schede didattiche che le insegnanti mandano, o ce l’hanno ma esauriscono in fretta le cartucce e devono uscire per cercarle; devono comprare cancelleria, la cui vendita è vietata in molti supermercati, perché non considerata bene di prima necessità.

In questo regime d’emergenza per l’intera popolazione mondiale, possiamo rinunciare a ogni certezza, provando a mettere in discussione ciò che abbiamo sempre creduto?
Parlando del compito nella sua accezione positiva di azione che favorisce e allena l’apprendimento, possiamo provare a pensare che qui e ora i compiti degli studenti siano diventati altri? Che siano, cioè, nuovi compiti che favoriscano nuovi apprendimenti?

Ciò che impareranno probabilmente non sarà argomento di programma di oggi ma argomento dei libri di storia di domani: impareranno l’impegno civico di sacrificarsi per il bene comune, a rispettare le regole, a gestire il proprio tempo, a dividersi il lavoro, ad auto-educarsi, a godere delle piccole cose, ad essere grati di avere una casa e una famiglia, ad ascoltare dentro di sé, ad annoiarsi.

Se davvero riuscissimo a pensarla così sarebbe un insegnamento senza eguali, una lezione che noi come studenti abbiamo in parte imparato, forse, dopo anni di università e che in buona parte stiamo imparando soltanto ora; si tratta di una prova molto grande che i nostri ragazzi saranno in grado di affrontare se affianco avranno adulti sostenitori e fiduciosi delle loro capacità: la famiglia è il primo sostenitore degli studenti, il primo grande insegnante, il porto sicuro. 

Sebbene non ci sia un modo universale di sostenere i propri figli nel percorso di studi, sebbene anche nei programmi ministeriali sia ben chiaro come gli obiettivi didattici vadano personalizzati e adattati alle necessità di ogni studente, sarà bene aiutarli a scandire il tempo, anche in quarantena. Il lavoro organizzato, infatti, come diceva Maria Montessori, è il presupposto per un apprendimento sereno. Sarà anche importante non dire loro bugie ma essere franchi e sicuri, fare le cose che più gli piacciono: cucinare, dipingere, costruire.
Il compito, come essenziale elemento di dovere, e azione volta oggi più che mai all’educazione al dovere e al lavoro, si inserirà tra questi momenti di rilassamento: compiti e attività ricreative si alterneranno favorendo la relazione, il dialogo e la condivisione autentica, fino a ieri spesso sconosciuta e oggi nostra compagna.